mercoledì 18 novembre 2015

5. IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DELLA GRUMELLINA
 IL PROCESSO AL COLONNELLO FRANCESCO  PAOLO TURCO

GAM GAM (chi canta prega due volte )- CANTO EBRAICO


Non molte persone sono a conoscenza di questo campo di concentramento sul territorio bergamasco. Sono pagine, dunque, da leggere assolutamente e con attenzione.
Le descrizioni e le testimonianze sono tratte dal libro “The towrer of silence - Storie di un Campo di prigionia - Bergamo 1941/1945”.



"Si uccide troppo poco": è con queste parole che il Generale dell’Esercito Italiano Mario Roatta e Generale Comandante in Croazia intendeva “ripulire” la Croazia, dopo l’aggressione fascista e nazista dell’aprile 1941.
Gli slavi erano considerati esseri inferiori, pericolosi e da deportare per far posto ai “coloni italiani”. In questo contesto nascono numerosi campi di concentramento per slavi in Italia; il più delle volte, come per il campo di Gonars, in provincia di Udine, delle vere e proprie anticamere della morte. 

La Centrale elettrica di Lallio che ospitava i prigionieri.
Il campo di concentramento P.G. 62 sorgeva a cavallo dei confini tra i comuni di Bergamo e di Lallio; precisamente in località Grumello del Piano che era (ed è tuttora) un quartiere della città. Era comunemente conosciuto come “il campo della Grumellina” ma nei documenti la località era indicata in due modi diversi: o “Grumellina-Lallio” oppure “Grumello del Piano”. Bergamo non compare mai in modo ufficiale, ma figura solamente sull’indirizzo di alcune lettere ricevute da alcuni prigionieri del campo.
L’area su cui sorgeva era molto ampia ed era caratterizzata da due blocchi di costruzioni. 
Il primo, sul territorio del comune di Bergamo, era costituito dai locali dell’ex bottonificio. Comprendeva: l’ingresso principale, che si apriva sulla statale 525, che incorporava anche la linea del tram Bergamo-Monza, una palazzina, sede del comando e residenza del comandante, e quattro capannoni industriali. Qui erano situati i servizi principali del campo fra cui: la logistica, i magazzini, le cucine e i dormitori dei soldati.
Il secondo, sul territorio del comune di Lallio, era costituito dalla struttura della grande centrale elettrica a carbone che all’epoca era già dismessa. Praticamente un’unica costruzione molto ampia dove erano sistemate le “camerate” dei prigionieri.
Il complesso comprendeva anche una grande vasca d’acqua, alimentata dal torrente Oriolo e che serviva per il raffreddamento delle turbine, e da un’alta ciminiera (ancora oggi esistente).
Fra le due grandi costruzioni passava una piccola strada (via delle rose) che collegava Grumello del Piano a Curnasco, chiusa al passaggio in quanto tutta l’area era stata recintata con un doppio reticolato.
I soldati dell’esercito italiano garantivano la sorveglianza con ronde e postazioni fisse in garitta e in altana. 

Interno del Campo di concentramento.

Il numero dei prigionieri mediamente rinchiusi era di 3.000/3.500 uomini, in un primo tempo quasi tutti slavi, considerati internati militari e pertanto non sottoposti alla tutela della Convenzione di Ginevra, a cui si aggiunsero più tardi: greci, ciprioti e, con l’apertura del fronte africano, inglesi, sudafricani, senegalesi, francesi.
Dalla testimonianza del sig. Cabra Stefano ex guardia del campo: “Periodicamente, ogni due mesi circa, partivamo dalla stazione di Bergamo, io, il tenente Trombetta e altre guardie, e andavamo a Lubiana a prendere i prigionieri. I viaggi di andata, ma soprattutto quelli di ritorno, non erano semplici: il treno, specie nel territorio della ex Jugoslavia, veniva spesso attaccato dai partigiani di Tito. Ricordo che un giorno ero al finestrino con un commilitone di nome Muzzio, quando arrivò una fucilata che asportò l’intera mano al Muzzio. Trasferivamo i prigionieri a gruppi di due/trecento e arrivati alla stazione di Bergamo, li portavamo al campo, naturalmente a piedi”.

Le vasche di lavaggio adoperate dai prigionieri.
Da un documento stilato da una delegazione della Croce Rossa Svizzera: “All’ingresso si trovavano due edifici adibiti a spaccio, una bottega dove lavoravano i sarti e i calzolai, il magazzino in cui venivano depositati i pacchi della Croce Rossa e l’edificio contenente le docce. Sulla destra c’erano otto fontane dove veniva lavata la biancheria e nell’edificio adiacente si trovavano i servizi, sulla sinistra i dormitori. Tutti questi edifici erano cinti da filo spinato e avevano al centro uno spiazzo dove venivano effettuati gli appelli, venivano distribuiti i pasti e si poteva praticare dell’attività sportiva. Al di là dell’area recintata si trovava un edificio adibito ad infermeria e un orto dove erano coltivate le verdure e le patate per il campo. I dormitori erano forniti di una tripla fila di letti di legno, dotati di materassi di paglia, due coperte di lana e lenzuola. Le file di letti erano distanziate tra loro di 6,5 piedi (1 piede = 0,3048 m.) e 4,9 dal muro, quindi, secondo i delegati svizzeri, le stanze non davano l’impressione di essere sovraffollate. Le truppe di colore appartenenti alle forze gaulliste erano separate dagli altri prigionieri; stavano al pianterreno, dove si trovavano temporaneamente anche alcuni prigionieri britannici, che sarebbero poi stati inviati ai distaccamenti di lavoro di lì a pochi giorni”.
Il comando del campo era affidato al Tenente Colonnello Francesco Paolo Turco nato ad Altamura il 4 gennaio 1890.
Dai documenti è emerso che l’ordinamento del campo era diviso per settori. Ne conosciamo sicuramente almeno due: il “Primo Settore” comandato dal Maggiore Spazzini, ed il “Secondo” comandato dal Sottotenente Salamano. Il Capitano De Paruta ed il Capitano Cozzolino erano due interpreti. Grillo era un ufficiale medico. Il sig. Cabra, nella sua testimonianza, ricorda il nome di altri due ufficiali: il Capitano Sciacqua di Cremona ed il Tenente Trombetta di Cellatica (Brescia), che comandava il distaccamento di Caravaggio.
Già dal 1941 i prigionieri vennero portati nelle cascine a lavorare nei campi al posto dei contadini bergamaschi impegnati al fronte. Le cascine di Caravaggio, Mozzanica, Capralba, Pandino, Brignano, Fornovo, ne accolsero molti.
Il signor Attilio Bizzioli ricorda che: “erano un pò scarsi nel lavoro dei campi ed erano debilitati dagli stenti e dalla fame”. Dall’8 settembre del 1943, con l’arrivo dei tedeschi un elevato numero di prigionieri venne impiegato nella costruzione di fortificazioni antiaeree nella zona di Dalmine, altri nell’estrazione di ghiaia dal greto del fiume Serio in località Padergnone fra i comuni di Zanica e Grassobbio (testimonianza del sig. Cabra), ed altri ancora negli sbancamenti di terreno intorno al campo di Aviazione Militare di Orio al Serio.
Dalla testimonianza del sig. Agazzi Luigi di Lallio: “Ricordo che i prigionieri li portavano fuori a lavorare; le vasche di depurazione dello stabilimento della Dalmine sono state costruite da loro”.

Gruppo di prigionieri all'interno del Campo.
Comunicato radio del Capo del Governo, maresciallo d’Italia Pietro Badoglio con il quale si annunciava l’entrata in vigore dell’armistizio firmato con gli anglo-americani: “Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo”.
L’annuncio dell’armistizio con gli Alleati e della fine dell’alleanza militare con la Germania, fu da molti erroneamente interpretato come la fine della guerra. La confusione fu totale; la completa mancanza di ordini da parte degli alti comandi abbandonò di fatto le forze armate italiane in un vuoto assoluto.
Dalla testimonianza del sig. Santini Giulio: “Ricordo che il 9 (settembre 1943) stavo lavorando alla Caproni…abbiamo iniziato uno sciopero e mentre tornavo a casa, per strada c’erano tutti i prigionieri che erano evasi dal campo della Grumellina. Andavano verso nord per raggiungere la Svizzera, da Como. Insistevano per andare in Svizzera”.
Gli abitanti dei paesi limitrofi, approfittando della confusione del momento, entrarono nel campo e prelevarono tutto quanto fosse possibile prelevare: generi alimentari, coperte, legname da ardere ed anche le armi.
Dalla testimonianza del sig. Agazzi Luigi: “Quando sono scappati tutti i prigionieri, siamo entrati nel campo e abbiamo portato via tutto quello che si poteva prendere; abbiamo mangiato bene per qualche mese”.
Buona parte delle armi venne portata via dai partigiani, anche se con azioni personali e senza un vero coordinamento.
Dalla testimonianza del partigiano sig. Previtali “Luciano”: “Siamo andati alla Grumellina con il solo compito di recuperare le armi. Molti soldati avevano gettato il fucile per scappare; addirittura qualche soldato rimasto ci consegnò direttamente l’arma. Avevano perso ogni volontà di combattere. Le abbiamo portate a Sforzatica e nascoste nei fienili dei contadini”.

Gruppo di prigionieri.
Dalla testimonianza del sig. Santini Giulio: “Subito dopo l’8 settembre sono arrivati i tedeschi, che scendevano dal Brennero con i carri armati e percorrevano l’autostrada che allora era ad una corsia. Si erano già attivati”.
Il campo passa sotto il comando tedesco della Luftwaffe di stanza all’aeroporto militare di Orio al Serio.
Dalla testimonianza del sig. Stefano Cattaneo che ricorda quanto gli raccontava il padre: “Le condizioni di vita all’interno del campo erano particolarmente dure, sia per il freddo che per la scarsità degli alimenti; ricordo che mi raccontava che mangiavano le bucce delle patate”.
I tedeschi, aiutati dai fascisti e dalle loro spie, cominciano subito i rastrellamenti per ritrovare i fuggiaschi ed i militari italiani considerati disertori, e riportarli al campo. Durante i rastrellamenti fu recuperato molto del materiale trafugato, ed anche una parte delle derrate alimentari, sulle quali molte famiglie avevano fatto affidamento. 
Nel campo gestito dai tedeschi, vengono rinchiusi per la prima volta anche militari italiani rei di non aderire alla Repubblica di Salò.
Nel tentativo di recuperare le armi, il comando tedesco intimò la restituzione minacciando severe rappresaglie sulla popolazione; ma le armi recuperate comunque non furono molte.

Gruppo di prigionieri.
Le famiglie della zona ebbero un ruolo estremamente importante: nascosero e sfamarono molti prigionieri e divisero con loro il poco cibo che c’era. Essere scoperti poteva voler dire la morte o la deportazione per tutta la famiglia.
Dalla testimonianza della sig.ra Poli Lidovina: “Quando l’8 settembre i cancelli del campo si sono aperti, in molti vennero proprio lì a cercare un primo rifugio. Allora avevo solo otto anni ma ricordo molto bene che i primi ad arrivare furono due prigionieri di colore, senegalesi. Mio papà era da poco tornato dalla Germania, e con non poche preoccupazioni li nascose nella stalla”.
Dalla testimonianza della sig.ra Clementina Villa: “Quando nel ‘43 sono scappati i prigionieri ero ancora piccola, avevo dodici anni. A casa nostra ne avevamo nascosti cinque, slavi, che dormivano nel fienile”.
Dalla testimonianza sig. Licini Tarcisio: “I prigionieri nascosti da queste famiglie erano scappati dal campo addirittura nel 1941, attraverso un buco nel reticolato verso la strada provinciale Bergamo-Dalmine. Da qui si erano gettati nel sottostante fossato che dopo pochi metri si diramava, passando sotto il provinciale stesso, e puntando in direzione di Stezzano”.

La famiglia Togni con quattro prigionieri: il primo seduto a sinistra e i tre sulla destra, due in piedi, uno seduto.
Tratto da “Il silenzio dei giusti” edito dal Comune di Palazzago:
“Si costituì un’organizzazione di aiuto e di assistenza, e vennero impiegate tutte le forze disponibili alcune delle quali anche appartenenti al clero, come quella di don Benigni di Palazzago che con il suo gruppo, formato soprattutto da giovani del paese, nascondeva i prigionieri nelle molte cascine della zona compresa fra Palazzago, Barzana, Burligo, e Colle Pedrino, per poi accompagnarli prima sul monte Roncola, poi verso il monte Resegone e da lì individuare la via più sicura per scendere a Lecco oppure in Valsassina.
L’attività delle prime bande partigiane è rivolta quasi esclusivamente all’espatrio dei prigionieri verso la Svizzera. Dopo un inizio un po’ improvvisato dove si studiarono i primi itinerari ed i giusti contatti, si delinearono due organizzazioni: una coordinata dal Partito d’Azione, operante nella zona di Dalmine, e l’altra coordinata da alcuni esponenti del clero. Diverse erano le vie seguite per portare in salvo i prigionieri, dalle più semplici come quella di Lecco-Acquaseria-Val Cavargnia-Svizzera, alle più difficili come Barbellino-Passo della Caronella-Valtellina-Tirano-Svizzera.
Alcuni prigionieri si aggregarono alle formazioni partigiane, ed ebbero un ruolo attivo nella lotta di liberazione come Raimond Marcel Jabin dell’esercito francese (Martiri di Cantiglio).

Bergamo, 31 Maggio 1944. Manifesto di avviso alla popolazione.

Da  “IL GIORNALE DEL POPOLO” di Bergamo
Mercoledì 10 Aprile 1946.
Si è iniziato lunedì e terminerà oggi alla Corte militare alleata il processo a carico del Colonnello Francesco Paolo Turco, di Altamura, comandante, nel luglio 1943 del Campo di Concentramento dei prigionieri di guerra di Orio al Serio. Egli è accusato di avere il 16 luglio ordinato ad un gruppo di prigionieri di eseguire alcuni lavori di ampliamento delle piante colmando dei fossati per costruirvi dei terrapieni. Essendosi i prigionieri rifiutati dicendo che l’ordine era contrario alla convenzione di Ginevra sui lavori dei prigionieri di guerra, il Colonnello Turco li diffidò ad iniziare subito il lavoro, pena la fucilazione. Non essendo stato ubbidito, chiamò presso di sé il primo prigioniero della prima fila - un cipriota suddito inglese - rinnovandogli l’invito. Nuovo rifiuto. Allora il Turco chiamò un soldato italiano ordinandogli di fucilare il ribelle, ma quegli parve titubare alquanto; il colonnello gli tolse il fucile e a due metri di distanza sparò contro il prigioniero.
Colpito all’addome, ad una coscia e in altre parti del corpo il ferito fu trasportato all’ospedale di Bergamo dove decedeva. Da ciò l’accusa di omicidio. Nel suo interrogatorio il Colonnello Turco si è difeso asserendo, fra l’altro, che secondo la legge italiana egli non è colpevole. Numerosi sono stati i testi sentiti, fra i quali monsignor Testa che visitò il campo di Orio. Ieri hanno parlato l'avvocato difensore Riva di Bergamo e l’accusatore Maggiore Williams. Oggi si avrà la sentenza.




Da “IL GIORNALE DEL POPOLO” di Bergamo
Giovedì 11 Aprile 1946.
Il Colonnello Francesco Turco, accusato dell’uccisione di un prigioniero alleato nel campo di concentramento di Orio al Serio e perciò incluso nella lista dei criminali di guerra, è stato condannato a morte, mediante fucilazione nella schiena, dalla Corte Suprema alleata.
La sentenza ha profondamente commosso il pubblico, che ha fatto ressa intorno all’aula e nei corridoi del Palazzo di Giustizia, improvvisando una violenta manifestazione di protesta.
Il colonnello Turco, è stato acclamato al grido di «Viva l’Italia» e «Viva l’Italia» egli stesso ha gridato, salutando militarmente quando è salito sul camion che lo ha portato in carcere.



Da “L’ECO DI BERGAMO”
Giovedì 11 aprile 1946.
La Corte Militare Alleata di Milano ha emesso ieri, dopo un lungo dibattito, la sentenza di morte contro il Colonnello Francesco  Paolo Turco, imputato di aver ucciso un prigioniero cipriota sul campo di Orio al Serio.
Difeso dall’avvocato Riva della nostra città il Colonnello Turco si è discolpato affermando di aver agito per dovere verso se stesso e verso la disciplina militare, sentendosi disobbedito da un soldato. “L’ho giurato - egli ha aggiunto - e confermo coscienziosamente di aver agito secondo la legge italiana e com’era mio dovere di soldato”. Dopo trequarti d’ora di deliberazione, il presidente legge la sentenza della corte, che l’interprete comunica all’imputato: “La Corte vi ha condannato alla fucilazione”. Il Colonnello Turco ascolta pallidissimo. Nessuna attenuante infatti è stata concessa al condannato. Il presidente riprende: “Questa sentenza dovrà essere confermata dal comando supremo alleato. La Corte intanto esprime la propria intenzione di presentare raccomandazioni perché la pena di morte sia commutata”. Come il Colonnello Turco sta per uscire dall’aula la folla gli improvvisa una manifestazione di simpatia, al grido di «Viva l’Italia»!. Il condannato risponde a sua volta: «Viva l’Italia»!



Dal RAPPORTO GENERALE DELLA RIUNIONE DELLA CORTE MILITARE tenuta nel palazzo della giustizia per il processo del Colonello Francesco Paolo Turco.
Milano l’8-10 aprile 46. 
Il buon carattere dell’accusato fu prodotta dalla Prova Documentale e l’avvocato difensore lanciò un appello per la mitigazione della pena, sottolineando che il figlio di Turco combattè con gli alleati in Italia.
La Corte condannò l’accusato a morte per fucilazione, aggiungendo una forte raccomandazione per grazia.
Il Colonnello Goodwin fu ordinato nel giorno come Testimone Mandatario all’esecuzione. L’accusato fece sapere la sua intenzione di fare una petizione contro la sentenza e la condanna.
Il Maggiore Generale Heydeman raccomandò che la sentenza dovesse essere commutata in sette anni d’imprigionamento.
Il 14 maggio 1946 il Commando Supremo Alleato confermò che la sentenza e la condanna della Corte dovevano essere commutate in quindici anni di prigione.

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